
Intervista con Katia Aere, medaglia di bronzo di handbike femminile ai Giochi Paralimpici di Tokyo
Intervista con Katia Aere, medaglia di bronzo di handbike femminile ai Giochi Paralimpici di Tokyo https://www.movefisioterapia.it/wp-content/uploads/2022/01/Intervista-con-Katia-Aere-move-1024x662.jpeg 1024 662 Move Fisioterapia Move Fisioterapia https://www.movefisioterapia.it/wp-content/uploads/2022/01/Intervista-con-Katia-Aere-move-1024x662.jpegKatia impara a nuotare a quarant’anni grazie all’idrokinesiterapia, diventa atleta agonista e conquista successi. Inizia a sognare le Paralimpiadi, nel 2018 conosce Alex Zanardi e scopre l’handbike. Questo è il suo racconto di forza e determinazione.
- Tu hai ricevuto due diagnosi: la prima nel 2000 di endometriosi pelvica e addominale e la seconda nel 2003 di rabdomiolisi massiva da dermatomiosite autoimmune e tiroidite autoimmune. Come hai vissuto l’arrivo di queste diagnosi?
La prima diagnosi l’ho vissuta come una liberazione perché è arrivata dopo 14 interventi addominali e 3 estreme unzioni. Prima del 2000 né io né i medici conoscevamo il motivo per cui periodicamente arrivavo sul letto operatorio in condizione di emergenza con dolori addominali acuti e lancinanti e sintomi da peritonite.
Nel 2000 finalmente ho capito cosa stava succedendo al mio corpo.
Nonostante la diagnosi non fosse bella, perché sappiamo tutti quali complicanze possa comportare l’endometriosi per una donna, posso proprio dire di averla vissuta inizialmente come una liberazione, poi chiaramente, quando la diagnosi viene metabolizzata, quando capisci cosa comporta e quali sono le complicanze a lungo termine è ovvio che dalla sensazione di liberazione iniziale passi un po’ allo sconforto.
- Com’è cambiata la tua vita? Che prospettive di vita ti avevano dato i medici?
Il primo intervento è arrivato nel 1992, avevo 21 anni. Considera che nei primi 3 anni ho fatto 6 interventi, era più il tempo che trascorrevo in ospedale che a casa…e più il tempo passava, peggio stavo.
La mia vita è profondamente cambiata. Prima avevo una vita attiva dal punto di vista sociale, nella vita privata. Vivevo costantemente con questi dolori addominali e pelvici che ad un certo punto venivano associati al gran numero di interventi fatti…e per cui non c’era nulla da fare.
Non si capiva che in realtà alla base c’era una patologia fuori controllo, che mi ha sconvolto l’esistenza.
Fino a prima della diagnosi, quindi, non c’era assolutamente nessuna prospettiva, né in positivo né in negativo.
Venivo operata d’urgenza, spesso emergevano grandi complicanze, dall’origine ignota, che mi obbligavano a rimanere ricoverata anche un mese dopo gli interventi. L’unico obiettivo era salvarmi la pelle.
Solo dopo la diagnosi è stato possibile comprendere quali terapie potessi assumere: una terapia immunosoppressiva e una terapia che riducesse le complicanze della fibrosi e delle aderenze addominali, causate dai numerosi interventi.
- Come sei arrivata in piscina?
Beh, il percorso è stato tortuoso. (…sorride…)
Nel 2002, ho fatto l’ultimo intervento. Dopo di che ho avuto un periodo di quasi un anno dove mi sentivo bene e avevo ricominciato ad avere una vita attiva, anche dal punto di vista sportivo. Avevo iniziato ad andare a cavallo, recuperando una mia passione di quando ero bambina, e avevo iniziato a sciare.
Finalmente mi sentivo bene!
Poi nel 2003, ero al lavoro e mi accorgo che non riesco più a deglutire. Avevo dolori alle grandi articolazioni (anche, collo, spalle e polsi), ma non mi preoccupavo tanto dei dolori, quanto del fatto che pur avendo sete ero incapace a deglutire l’acqua. Essendo io infermiera e lavorando al centro trasfusionale, avevo un medico lì con me che mi ha fatto fare subito degli esami del sangue, ma l’esito di questi esami non arrivava mai. Dopo qualche ora, un biologo mi comunica che c’è qualcosa che non va e che i miei esami non sono dosabili. Con i referti in mano, mi mandano da un medico internista, che non appena vede gli esiti mi spedisce a Udine. A Udine, immaginano sia qualcosa di autoimmune, rifanno gli esami che progressivamente sono sempre peggio e il cui esito è assolutamente incompatibile con la vita.
In quel momento, l’obiettivo primario è salvarmi la vita per cui iniziano una terapia ad alte dosi di cortisone. Sono seguite quindi biopsie e altre indagini specifiche fino alla diagnosi di questa malattia rara, la rabdomiolisi massiva da dermatomiosite autoimmune, per cui non erano disponibili molte informazioni e per cui non esistevano nemmeno strategie terapeutiche chiare. Il trattamento farmacologico comprendeva cortisone, immunosoppressori e chemioterapici.
Dopo una diagnosi di questo tipo, ovviamente la prima cosa che vuoi sapere è la prognosi. Mi viene spiegato che essendo una patologia rara non ci sono grandi studi e quindi grandi certezze e che nelle forme più gravi colpisce la muscolatura respiratoria.
Di fatto nel 2006, vengono coinvolti anche i miei muscoli respiratori, inizio a vivere con una “fame d’aria” costante e arrivo all’ossigeno terapia giorno e notte. Chiaramente la situazione precipita. In una delle ultime visite, mi comunicano che la situazione è grave e che non mi resta molto tempo da vivere.
Per la prima volta penso: cavolo, ho fatto tutto ciò che i medici mi hanno chiesto di fare e non stavo ottenendo niente. L’ultima spiaggia, l’ultima cosa che mi mancava era provare con l’idrochinesiterapia, rivolta al rafforzamento della muscolatura respiratoria e del tronco, che mi era stata consigliata come terapia coadiuvante.
Non ci penso due volte e inizio il mio percorso in acqua nella piscina di Maniago. Lì, ho avuto la fortuna di incontrare un fisioterapista che ha capito il mio terrore dell’acqua e che la difficoltà più grande sarebbe stata proprio quella di farmi entrare in acqua. Nel momento in cui sono riuscita ad entrare è iniziata la mia rinascita. Le mie prime sedute consistevano nel restare seduta sul bordo del vaschino con le gambe a penzoloni con lui in acqua di fronte a me.
Non avendo equilibrio, non avendo forza ed essendo quindi instabile, avevo paura di cadere, avevo paura di andare sotto’acqua e di non riuscire a risalire…avevo un sacco di paure che alla fine ho capito fossero solo nella mia testa.
- …e come sei passata dal restare seduta sul bordo del vaschino al nuotare nella profondità dei 2 metri della piscina di Spilimbergo?
Dopo i primi mesi nel vaschino con ciambelloni e tavolette, mi ricordo che un giorno il fisioterapista mi ha dato una cintura galleggiante e ho capito che avrei fatto qualcosa di diverso: mi ha accompagnato nella piscina profonda un metro e cinquanta. Anche lì ho avuto i miei tempi, ma ho capito che anche quella paura si poteva superare. Abbiamo fatto una o due settimane di idrokinesi lì finché il fisioterapista mi ha comunicato che secondo lui ero pronta per imparare a nuotare.
Non me lo sono fatta ripetere due volte. Approdo alla piscina di Spilimbergo e ho trovato Pier. Come tu ben sai, Pier è uno che non si lascia dire di no, ci ho provato due volte a dire “No, questo non lo faccio”, ma è stato impossibile e niente ho imparato le basi e poi sono arrivata da te.
- Mi hai sempre detto che con i miei modi ti ho aiutata. Potresti definire “i miei modi”?
Intanto guardavi Katia e non la malattia. Poi secondo me tu eri la versione un po’ più sensibile di Pier. Anche tu sapevi come non farti dire di no. Eri molto professionale, molto attenta, ma molto sensibile…e in quel momento lì avevo bisogno di quel mix di cose. La fermezza da un lato, ma la sensibilità dall’altro.
Mi sento molto fortunata perché nel mio percorso ho trovato sempre persone che mi hanno capito e hanno capito soprattutto ciò di cui avevo bisogno in quel preciso momento, permettendomi di far emergere delle cose di me che non pensavo nemmeno di possedere.
- Ti ricordi dell’episodio del tappanaso?
(Ride) Gli episodi del tappanaso vorrai dire! Ma quanti ne ho persi?!? Non so quanti negozi ho arricchito con tutti quelli che ho acquistato, li perdevo in continuazione…finché l’ultimo mi è caduto sul fondo e tu mi hai detto: “due sono le cose: o scendi sul fondo a prenderlo, oppure rimane sul fondo e d’ora in avanti fai senza!” Lì è rimasto, col cavolo che sarei scesa due metri per prenderlo. (Ride)
Non l’ho mai più usato per nuotare.
- Il nuoto quindi cos’ha rappresentato per te?
Il ritorno alla vita.
Quando mi è stato comunicato che non mi restava molto tempo da vivere, ho avuto paura di non farcela e ho capito che fino a quel momento il terrore dell’acqua mi aveva bloccato e condizionato troppo la vita. Quando dico terrore intendo dire che quando mi facevo la doccia per me era impossibile lavarmi i capelli con l’acqua che mi scendeva sul viso. Io mi facevo la doccia e poi mi lavavo i capelli con la testa sotto al lavandino. Una volta capito questo, il mio percorso in acqua l’ho vissuto come l’unica cosa da fare ed è stata la mia rinascita.
- Riassumendo. Avevi il terrore dell’acqua e l’hai vinto. Hai imparato a galleggiare, a toccare il fondo, a nuotare, hai fatto le prime gare di nuoto sociali, sei diventata una delle più forti nuotatrici paralimpiche italiane…nel 2018 come ti è venuto in mente di dedicarti a tutt’altro sport?
Non mi è venuto in mente! Il paraciclismo era fuori da ogni mio pensiero. Nel senso che più volte Bepi (il marito) mi ha chiesto di andare a vedere le gare di paraciclismo, ma a me non interessava. Quella benedetta domenica c’era Alex Zanardi a Maniago. Io sono andata per sfinimento, perché Bepi già dal giorno prima continuava ad assillarmi e a dirmi che domenica mi avrebbe portato a Maniago. Pur di non sentirlo più, ho accettato a condizione che mi riportasse in piscina entro le 15 perché dovevo allenarmi.
Una volta su (a Maniago) guardiamo un po’ la gara e ad un certo punto Bepi mi spinge dentro allo stand di Obiettivo 3. Lui aveva già preso accordi affinché mi vedessero. Quindi ho accettato di salire su una handbike, ho fatto due giri nella piazza e….è stato amore a prima vista! Tra le piccole cose che la malattia mi ha impedito di fare c’era anche il poter andare in bicicletta, quindi rivivere la sensazione di aria sul viso dopo 20 anni è stato a dir poco meraviglioso.
- Quindi santo Bepi che ti ha rotto le scatole!
Eh si, mi tocca ammetterlo.
Che poi, ci ho riflettuto parecchio…Io ho deciso di diventare una nuotatrice paralimpica proprio quando ho visto Alex (Zanardi) alle Paralimpiadi di Londra. Lui è un grande esempio di come la vita si può ricostruire anche dopo eventi tragici e siccome la mia gioventù è stata tutta un evento tragico perché dai miei 20 anni non ho più vissuto, mi sono detta “se ce l’ha fatta lui, perché non posso farcela io?!”.
Poi…nel 2018, la vita mi mette di fronte nuovamente Alex, questa volta a pochi chilometri da casa, con il paraciclismo e la sua Obiettivo 3.
Ho pensato che se stava succedendo un motivo c’era, che non era un caso e quindi ho accettato di provare a correre. Evidentemente il tempo mi ha dato ragione.
- Tu in soli due anni, ti sei seduta per la prima volta su una handbike, ti sei qualificata per le Olimpiadi e ti sei portata a casa una medaglia olimpica. Adesso Katia dove vuole andare?
In realtà io sono arrivata a Tokyo ponendomi una serie di obiettivi a breve termine, non tanto pensando a un grande obiettivo lontano.
Devi sapere che io ho fatto la prima gara di handbike una settimana dopo aver iniziato a pedalare e ho vinto il titolo di Campione Veneto, vincendo su tutti gli altri. E questa è stata una vera rivelazione. Mi sono chiesta più volte “ma com’è possibile che una che pedala da una settimana possa ottenere questo?”
Quel risultato non potevo certo attribuirlo alla mia prestanza fisica, che tutt’ora non ho, nel senso che ho una grande resistenza, ma a livello di forza e potenza non ce n’è. Ho capito che forse è vero che laddove non arriva il fisico, ci arriva la testa! È stato un punto di partenza per cercare di darmi obiettivi a breve termine: quando raggiungevo un obiettivo, ero già pronta per lavorare sul successivo. È sempre stato così.
Non posso dirti che non penso a Parigi 2024. Ci penso ma non tanto come obiettivo quanto come una sfida personale. Se devo parlare di obiettivi, io penso alla gara che ho domenica prossima a Gemona. E dopo Gemona so che la settimana successiva avrò l’ultima gara con cui terminerò la stagione ciclistica. Dopo so già che avrò altri impegni al di fuori dell’handbike che mi permettono di essere, di essere presente e di essere attiva.
Quello che forse più mi spaventa di più adesso è il fatto di aver raggiunto un grande obiettivo e di non aver altri obiettivi che mi permettano di essere sempre sul pezzo.
- Hai altri progetti in mente, magari non sportivi?
Io mi sento una persona realizzata. Tutto ciò che io vorrei avere già ce l’ho. Ho un marito che adoro e una famiglia che mi supporta sempre. Ho degli amici che sono un contorno meraviglioso.
La maggior parte degli obiettivi che mi pongo attualmente sono sportivi perché sono quelli che mi permettono di essere e di rimanere attiva.
- Mi hai già detto che il contesto familiare e sociale è stato e tuttora è fondamentale. Del lavoro cosa mi dici?
Il primo riscatto che ho avuto è stato proprio il ritorno al lavoro nel 2006. Prima di ammalarmi lavoravo già in ospedale e quando sono rientrata non l’ho fatto tanto per una mia scelta ma perché rischiavo di perdere il posto e avendo un mutuo da pagare…
Con il senno di poi, però, devo ammettere che rientrare al lavoro mi ha aiutato a tirarmi fuori da casa, ad accettare ciò che ero diventata, a vincere la paura di farmi vedere com’ero e quindi di ciò che potevano pensare gli altri nel vedermi così.
Ho accettato la carrozzina quando non riuscivo più a fare tragitti superiori ai 500 metri e quando ho capito che la carrozzina non solo non era una cosa negativa, bensì era un valore aggiunto che mi facilitava, mi rendeva la vita più semplice e soprattutto mi permetteva di fare ciò che volevo. Banalmente, un giro al mercato al sabato mattina…
Ma tu lo sai perché in piscina venivo con una sola stampella? Perché nella mia testa mi facevo vedere dagli altri meno impedita, meno peggio di quella che ero, meno disabile…il passaggio alla doppia stampella sono stata costretta a farlo perché lo sforzo di camminare con una stampella sola mi procurava dolori all’anca così forti che mi impedivano di dormire la notte. (sorride…)
Tutto questo per dirti che nonostante in piscina stessi vincendo numerose paure, ancora non accettavo completamente ciò che ero.
- Ora ti dico alcuni dei tuoi motti e ti chiedo di commentarli.
“Volere è potere, tutto il resto sono scuse.”
Nel mio caso è palese. All’inizio della malattia ho perso anni di vita, perché mi sono lasciata condizionare dal dolore e dalle paure. Io per anni mi sono identificata nella malattia. Katia non esisteva più, era solo una persona malata. È ovvio che la malattia lasciava segni sul fisico. Certamente, se avessi continuato a vivere guardando solo i miei limiti e le mie incapacità, non so dove sarei adesso. Forse non sarei proprio.
Quindi quando ho scoperto che, oltre alla malattia, io ero anche altro, ho compreso che spettava a me sfruttare le potenzialità che avevo dentro. E quando riesci a capire questo, automaticamente il volere è potere.
“Crederci fino al giorno dopo.”
Questo è un motto che mi ha trasmesso il mio coach di handbike e che ha fatto la differenza.
Lui ha creduto in me e nelle mie potenzialità, ancora prima di me. Lui riusciva a vedere delle cose che io ancora non vedevo. Ad un certo punto a iniziato a ripetermi “Credici fino al giorno dopo” e per lui quel giorno dopo era relativo a Tokyo. Lui sapeva che sarei arrivata lì. Io ho sempre lavorato sodo, ma con la titubanza e con la paura di nominare la parola Tokyo. Poi quando mi accorgevo che gli obiettivi intermedi che avevamo prefissato, li centravo in pieno uno dopo l’altro, ho cominciato anche io a crederci fino al giorno dopo…e a credere a Tokyo.
Cazzarola…aveva ragione!
“I limiti sono solo nella testa di chi vuole vederli”
Assolutamente sì. Assolutamente sì. Assolutamente sì. Quest’immagine mi è apparsa molto forte quando sono riuscita a fare per la prima volta l’apnea. Arrivavo da una paura atavica dell’acqua. Quindi se hai paura dell’acqua, figurati dell’acqua senza respirare. Arrivavo da una situazione in cui il respiro per un periodo ha rappresentato il confine tra il vivere e il morire.
L’apnea è una disciplina che ho voluto provare e la prima volta non ti dico quanta paura avessi. Il fatto di restare in acqua senza respirare e impormi di rimanere lì sotto mi ha fatto tornare indietro: la paura dell’acqua, la sensazione della mancanza di respiro…forse è stato lì che ho concretizzato che la mente può controllare certe situazioni che tu pensi siano incontrollabili e in realtà sono tali fino ad un certo punto. Ed è così che sono diventata la prima atleta paralimpica a guadagnarmi l’elite class dell’apnea. Io adesso potrei partecipare a qualsiasi gara internazionale di apnea con i normodotati.
Con l’apnea ho toccato con mano che i limiti ce li imponiamo nella nostra testa.
- Ora invece ti dico alcune mie frasi, che rappresentano dei concetti fondamentali della mia pratica clinica e vorrei che tu mi dicessi cosa pensi in merito.
“Non è tanto importante la diagnosi, quanto cosa decidi di fare con quella diagnosi.”
Verissimo. Ti faccio un esempio banale. Al momento della diagnosi, mi è stato vietata qualsiasi tipo di massaggio, di elettrostimolazione o di movimento attivo che potesse essere impattante per i muscoli. E in realtà io ne sentivo il bisogno, perché sia la malattia, sia il movimento ridotto per molti anni avevano reso i miei muscoli atrofici.
Mi sono chiesta spesso se forse avrei recuperato di più, se avessi fatto più di testa mia, avessi avuto più coraggio, fossi andata oltre a ciò che mi veniva detto di fare o di non fare e quindi avessi fatto più riabilitazione e più attività fisica. Pur sapendo che comunque la mia malattia è tendenzialmente degenerativa…
“L’attività fisica è la cura, o meglio il farmaco meno utilizzato.”
Lo sport, in primis il nuoto, mi ha restituito la vita. Come potrei non essere d’accordo con questa affermazione?!
Purtroppo tuttora viene data troppa poca rilevanza al movimento, alla vita attiva, allo sport.
“Le parole sono importanti e non sono solo parole.”
Altroché. Parole giuste possono infonderti speranza e farti andare lontano. Parole sbagliate o comunque poco pensate possono definitivamente sotterrarti. Certo che le parole sono importanti. E forse anche l’esempio.
- Potresti dare un consiglio o dire qualcosa a una persona che magari ha appena ricevuto una diagnosi?
Ovviamente parlo per esperienza personale. Qualsiasi tipo di diagnosi identifica una situazione del momento e non identifica te persona. È importante non dimenticarsi che siamo persone a 360° e che non siamo una malattia ed è importante mettersi nelle mani di professionisti giusti che abbaiano esperienza e che sappiano guidarti in un percorso costruttivo.
La diagnosi ti appartiene ma non ti identifica.
- E se ti chiedessi invece di dire qualcosa o di dare un consiglio a tutti quei professionisti sanitari che si relazionano con i pazienti e con le loro disabilità?
Io consiglierei loro di ascoltare di più i loro pazienti, di vedere la persona che sono, di considerarli esseri pensanti, con una loro sensibilità.
La mia condizione di fatto ha arricchito il mio essere operatore sanitario perché mi ha fatto vedere cose che prima non vedevo o guardavo in modo diverso o che davo proprio per scontato. In realtà, ho scoperto che non c’è proprio nulla da dare per scontato.
- Nonostante la tua patologia e l’impossibilità di prevedere eventuali reazioni avverse, ti sei vaccinata. È importante credere nella scienza?!
Per me il vaccino è stato un grande punto interrogativo per molto tempo. Io non ho mai smesso di lavorare (e lavoro in ospedale) e sentivo la vaccinazione come un’esigenza prioritaria. Purtroppo per il tipo di malattia che ho e di farmaci che assumo, non è stata scontata. Per molto tempo nessun medico è stato in grado di dirmi se sì o no. A un certo punto un medico mi ha dato l’ok, perché ammalarmi sarebbe stata una condanna. Facendo terapia immunosoppressiva, avendo basse difese immunitarie e lavorando in ospedale, il rischio di contrarre il covid era molto elevato. In più fra le diverse allergie che ho, sono allergica ai due antibiotici di elezione nel trattamento del Covid.
Quindi ho sospeso per un periodo le mie terapie e ho potuto vaccinarmi.
Mi chiedi se è importante credere nella scienza. Io ti rispondo che sarebbe stupido non farlo. Se non crediamo alla scienza, a cos’altro dovremmo credere?!
“A cura della Dr.ssa Stefania Cedolin, Fisioterapista Move”
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